mouse (lett. topo) è il dispositivo di puntamento del cursore (un puntatore o un selezionatore a video) che in italiano non è stato tradotto: il corrispettivo topo (utilizzato in francese: souris, in spagnolo: ratón, in portoghese: rato, in tedesco: Maus) da noi è solo una voce scherzosa.
9 commenti su: mouse
Non vedo perché non cominciare a chiamarlo topo, come fanno tutte le altre lingue europee, come il tedesco, il francese, lo spagnolo, il greco ecc…
La lingua non segue la logica nel suo entrare nell’uso, purtroppo.
Non si potrebbe chiamarlo semplicemente “cursore” o “puntatore” per metonimia ed eventualmente indicare il suo corrispettivo a video “freccetta” (o “manina” quando diventa tale)?
Ottima idea così si vincerebbe anche la resistenza della gente a chiamarlo come un animale poco “popolare” come il ratto/topo.
In italiano si può dire: topo (gergo), puntatore ( che è il nome tecnico) ma propongo anche “cliccatore” in quanto fa clic
Disambiguiamo: il traducente del computeriale “mouse” è dispositivo di puntamento. Il cursore è la barra lampeggiante del testo, il puntatore è la freccetta visiva con cui puntiamo i files o altri oggetti dell’interfaccia grafica. L4accademia della Crusca considera “mouse” come un prestito integrato, ormai, e quindi non lo considera un anglicismo “da combattere” a tutti i costi. Al singolare “mouse”, al plurale “mice”, con pronuncia come il granturco “mais”.
Un prestito integrato implica l’adattamento e l’italianizzazione secondo l’indole italiana, per esempio film o bar (nonostante terminino in consonante) che si leggono come si scrivono e generano derivati perfettamente italiani. Mouse al contrario rimane nella sua pronuncia e ortografia inglese (mica lo scriviamo “maus” come “mais”). Tutto il resto è fuffa.
Risposta ad Antonio Zoppetti
Il prestito integrato non è (solo) questione di grafia
Un prestito integrato in italiano è tale quando entra pienamente nel sistema lessicale, morfologico e sintattico, indipendentemente dal fatto che cambi o meno grafia.
Nel caso di film, bar o club, pur conservando l’ortografia originale, abbiamo ormai accettato il genere, il numero e la collocazione nei nostri contesti: il film, i film; il bar, i bar.
Esempi analoghi a “mouse”
– scanner (lo scanner, gli scanner)
– smog (lo smog invariabile)
– catering (il catering, i catering o i caterings)
In tutti questi casi l’ortografia non muta, ma sono ormai perfettamente “italiane” per frequenza d’uso, regolarità grammaticale e accettazione nei dizionari.
“Mouse” come prestito ormai pienamente italiano
– Al singolare resta mouse, al plurale spesso mouse o, meno frequentemente, mice.
– L’Accademia della Crusca lo annovera tra i prestiti integrati: non è più un anglicismo da combattere, ma un termine ormai normalizzato.
– Il criterio non è imporre una grafia “maus” o una pronuncia forzata, bensì riconoscere che il calco semantico (“dispositivo di puntamento”) e l’uso quotidiano confermano la sua integrazione.
Perché non è “fuffa”
Ridurre il tema a “fuffa” rischia di tralasciare i meccanismi di evoluzione della lingua:
– Prestiti “invisibili” (film) e “visibili” (computer, mouse) convivono da decenni.
– È più fruttuoso chiarire funzioni e differenze: dispositivo di puntamento (mouse), cursore (barra lampeggiante), puntatore (freccetta), anziché “fissarsi” sull’ortografia.
Sono un po’ stufo di confrontarmi con chi, con immotivata sicumera, pontifica presunte regole che non stanno né in cielo né in terra, e per di più mi attribuisce prese di posizione che non mi appartengono.
Per prima cosa l’idea che una parola come “mouse” sia da “combattere” non mi appartiene, né ho mai cercato di “imporre” la grafia “maus” né altro: questo dizionario non è prescrittivo, bensì volto alla diffusione e promozione delle alternative italiane, quando ci sono e circolano e quando sono perfettamente possibili e attuabili.
Ma un conto è ricorrere a qualche parola straniera (non ci vedo nulla di male in sé) un conto è soccombere davanti a uno tsunami anglicus che sta distruggendo l’italiano. Dunque combatto l’anglomania e la nostra sudditanza culturale (e perciò linguistica: gli anglicismi non sono il morbo, come diceva Castellani, bensì il sintomo del nostro complesso di inferiorità verso la lingua d’oltreoceano) che non fa altro che anglicizzare ogni cosa e ha delle conseguenze molto profonde sull’italiano, che si evince anche dalla confusione di ragionamenti come il suo.
In secondo luogo non sono affatto fissato sull’ortografia, come da lei asserito. Come chiunque dovrebbe sapere, l’italiano (come l’inglese e le altre lingue) è caratterizzato da precise norme che regolano il lessico (quelle delle grammatiche) e riguardano non solo la grafia, ma anche i suoni; più precisamente, la questione è racchiusa nel rapporto tra suoni e modalità di trascriverli.
Dunque il suono “ciao” – come si trascrive in italiano – in inglese si trascrive invece “chow” e quando parliamo del cane chow-chow stiamo passando al sistema inglese, indipendentemente dalle frequenze d’uso e da tutto il resto, esattamente come quando facciamo il chek-in in albergo, il check-up dal medico (e parliamo di microchip o di chat) stiamo seguendo le regole dell’inglese, visto che in italiano la c velare (il suono duro) è resa con il “ch” che in inglese ha invece il suono dolce opposto. E davanti al suono “siti” un italiano deve oggi riflettere sul contesto e sulla lingua da impiegare per trascriverlo come “siti (plurale di sito) o “city” di city bike, intercity e via anglicizzando.
Anche se si vuole seguire l’approccio e la terminologia in voga tra i linguisti (che non seguo e nei miei libri ho criticato con ottime ragioni a partire dalla strampalata idea di “prestito” che è decisamente arbitraria), venire qui a dire che un “prestito integrato” è slegato da suoni e grafia è una sciocchezza che non solo è smentita dalle definizioni dei linguisti (dalla Treccani: “• Prestito non adattato (o integrale), quando la parola o l’espressione straniera entra nel lessico così com’è, portando con sé anche la grafia e le caratteristiche grammaticali estranee alla lingua di arrivo”) ma non è sostenibile né sul piano storico né su quello logico. Non si capisce perché – a suo dire – la Crusca annoveri “mouse” come normalizzato, né da dove ricavi che il suo plurale sarebbe mice, basta leggere i dizionari e conoscere le regole dell’italiano che tratta i forestierismi come parole invariabili.
La informo che dal punto di vista storico nessuno si è mai sognato di pensare che “l’integrazione” sia determinata “dall’uso quotidiano” e ciò non vale solo per i puristi (da Bembo a Cesari) ma persino per i più accesi nemici del purismo di ogni epoca: sulla questione si sono espressi esplicitamente Machiavelli, Muratori, Cesarotti, Leopardi e tantissimi altri compreso Verri che nella sua rinuncia al Vocabolario della Crusca avrebbe usato persino le parole “sclavone” se ITALIANIZZANDOLE avessero portato contributi.
Passando al punto di vista logico, se le parole di alta frequenza che seguono l’ortografia e la pronuncia IN INGLESE vengono proclamate “italiane” – non si capisce da chi visto in Italia non esistono enti che regolano la lingua in modo ufficiale – allora si riscrivano le regole delle grammatiche e si introducano le nuove regole ed eccezioni per cui la “u” di una parola a suo dire italiana come “computer” si deve leggere “iu”, e si reintroduca e regolarmenti il suono della k di killer accanto alle regole del ch, della c velare e della c dolce.
Si risparmi dunque la sua lezioncina basata sulle sue opinioni personali su cui non mi interessa discutere. La saluto.